Non puoi risolvere un problema che non c’è
By: dr.ssa Selena Tomei
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Non puoi risolvere un problema che non c’è
Tantissime volte capita di arrovellarsi di fronte a situazioni e dilemmi per i quali trovare una soluzione ci sembra impossibile. Ma ancora più spesso, non è la soluzione che manca, piuttosto il problema!
Cosa significa?
Per risolvere un problema, dovremmo prima di tutto, essere certi di stare affrontando il problema giusto e, almeno, aver capito di che problema si tratti. Sembra qualcosa di assolutamente scontato e ovvio. Ma siamo proprio sicuri? Più spesso di quanto si creda, infatti, si commettono errori che possono portarci fuori strada senza quasi che ce ne accorgiamo.
Ed è proprio questo che in molti casi ci porta fuori strada o a percorrere vicoli ciechi: il primo passo per un Problem Solving efficace, qualsiasi metodo intendiamo applicare, è identificare correttamente il vero problema. Se questo non viene identificato, il rischio è altissimo. Con tutta probabilità perderemo tempo ed energie a lavorare alla risoluzione di un falso problema, che non ci porterà da nessuna parte, anzi, genererà in noi un incredibile senso di frustrazione.
Insomma, l’errore più grande che possiamo commettere è quello di risolvere un problema mal definito (che quindi ci porterà ad una soluzione probabilisticamente non efficace).
A tal proposito, sembra che Einstein abbia detto che se avesse avuto solo un’ora di tempo per risolvere il problema di salvare il mondo avrebbe trascorso i i primi 55 minuti a cercare di dare una definizione corretta del problema e i restanti 5 per risolverlo (sulle corrette tempistiche ci sono diverse interpretazioni, ma non potendolo più chiedere direttamente ad Einstein decido di adottare quella riportata nel libro di Ivan Fantini “Applicare il Problem Solving”).
Un’altra situazione che spesso accade è quella in cui si giunge a delle conclusioni in maniera decisamente affrettata, credendo di avere tutta la situazione chiara quando invece non è cosi. La maggior parte di noi, in realtà, cerca di arrivare prima possibile alla soluzione, ma se questi tentativi non sono fondati su una buona definizione del problema (Problem Setting) rischiano di essere sforzi inutili, come quando in bici si pedala a vuoto perché è caduta la catena. Questa situazione viene generalmente definita “jumping to conclusions” , ovvero saltare immediatamente alle conclusioni e alle soluzioni, ritrovandosi cosi ad investire tempo e denaro nel fare attività che possono rivelarsi inutili o non pertinenti con il problema che si tentava di risolvere.
E il problema rimane.
Un’altra situazione che può mettere a rischio le nostre capacità di problem solver è confondere il problema con le cause. Un classico esempio: c’è il mio programma preferito e ho la tv rotta. Qual è il problema? La maggior parte di noi senza pensarci troppo direbbe: “il problema è che la tv è rotta”. Formulare la questione in questo modo tuttavia è sbagliato e può dirottare i nostri sforzi di soluzione su un piano parziale e non risolutivo della mia esigenza di quel momento (aggiustare la tv). Ma il fatto che la tv sia rotta è una causa del problema, non il problema in sé. Il vero problema (in quel momento) è che non posso vedere il mio programma preferito: prestare attenzione al vero problema, al contrario, mi aprirà la strada a soluzioni più efficaci (andare da una amica o piuttosto verificare se posso vedere il programma in streaming) che non avrei potuto contemplare se avessi continuato a considerare il problema il fatto di avere la tv rotta.
Per definire il vero problema, pertanto, bisogna sempre pensare a quello che è l’obiettivo che vogliamo ottenere, il risultato desiderato. E partire da li (un pò come fece Alessandro Magno).
Un altro errore molto comune è quello che rientra nei cosiddetti errori di linguaggio, ovvero nei termini che scegliamo per definire un problema e che possono spostarlo su un livello che è esterno da noi, fuori dal nostro controllo. Ad esempio, rispetto al cercare lavoro e non trovarlo, dire “c’è la crisi”, oppure “le aziende cercano solo persone con esperienza” . Ecco, questi modi di definire il problema, lo rendono irrisolvibile, perché di fatto non ci possiamo fare nulla vista che non dipende da noi, non possiamo agire e reagire in alcun modo. In sintesi è come dire: non ci posso fare niente. In questo caso la confusione è tra il problema e quella che può essere definita una condizione. Un fatto, insomma, di cui bisogna tenere conto, ma certo non il problema. Il punto non è se sia o meno vero che c’è la crisi o che in Italia cercano solo persone con esperienze. Il punto è che se descrivo (soprattutto a me stesso) il mio problema in questi termini alla lunga mi convincerò di questo (e convincerò gli altri) e smetterò di darmi da fare (tanto non dipende da me).
Insomma, può sembrare assurdo ma per diventare degli efficaci problem solver bisogna imparare a mettersi nei panni dei problemi.
“Se fai ciò che hai sempre fatto, otterrai ciò che hai sempre ottenuto”, racconta questa massima la cui paternità è incerta (alcuni la attribuiscono ad Henry Ford, altri ad Anthony Robbins, altri ad Einstein). Per applicare qualsiasi metodo di problem solving, bisogna lavorare sui propri comportamenti, imparare a modificarli: non è detto che se una strategia è stata efficace una volta lo sarà per sempre o non vuol dire che non ce ne siano altre migliori per risolvere quel problema.